sabato 7 aprile 2012

45 giorni a Vogue #Chapter 31



Ok, lo ammetto, forse il Paradiso non è proprio così. Forse questo lavoro non è un pot-pourri profumato di roselline secche e spezie rilassanti. Assomiglia, per lo più, ad un girone dell’ inferno in cui il tempo non è mai sufficiente e il tuo sedere non è mai abbastanza magro. E nell’ ultimo mese ho smaltito tutti i kg presi a Natale. E anche quelli presi il Natale scorso. 
Lavoro ufficialmente a Vogue da soli ventuno giorni e sono già stata a Parigi tre volte e due a New York. Credo di aver accumulato più ore di volo di una hostess. Ho stretto un migliaio di mani e salutato con riverenza centinaia di persone. Ho messo in piedi quattro servizi fotografici in una settimana senza il minimo aiuto dai miei stagisti e sono stata personalmente all’ aeroporto di Malpensa a ritirare il pacco con le foto fatte alle Bahamas che deve rimanere segretissimo fino al prossimo numero. Non che l’ aiuto di Lara Ferrandi me l’ aspettassi davvero, ma non credevo che Thomas, caro piccolo bastardo, avrebbe preso le sue parti. Ferdinanda mi ha detto che devo parlare di ogni mio problema con Anita ma credo che le scaramucce fra dipendenti siano l’ ultimo degli interessi del grande capo. 
La ciliegina sulla torta sono state le sfilate d’ alta moda: Anita mi ha praticamente costretto a partecipare a tutte. Tutte. Non mi lamento, sia chiaro, sono solo molto stanca. Ho indossato Dior e Chanel, Elie Saab mi ha regalato un abito da sogno e Marc Jacobs mi ha invitato a vedere la collezione prima della sfilata di Louis Vuitton ma in questo momento l’ unica cosa che vorrei addosso è il mio pigiama. 
In ventuno giorni di lavoro ho visto Enrico tre volte. Tre misere volte. In compenso ho passato così tanto tempo con Giorgio Armani, per le prove del mio abito da damigella d’ onore barra testimone della sposa, che siamo passati a darci del tu. E’ stato un momento epico e vorrei proporre quel giorno come festa nazionale. E non vi nego che mi sono davvero commossa: quell’ uomo, quando lavora, trasmette un’ energia talmente forte che ti travolge. Lui usa la matita come una bacchetta magica; quello che crea sono opere d’ arte: la sua creatività e la sua testa fanno incantesimi. Ovviamente Lady Arleene ha dovuto dire la sua su tutto –perfino sulle scarpe che non si vedranno dato che i due vestiti che indosserò sono lunghi e che, ciliegina sulla torta, andremo a comprare alla fine del mese a Londra, come se a Milano non ce ne fossero a sufficienza- facendo impazzire anche i santi. 
Mi massaggio in maniera decisa i muscoli del collo, sono dolorante e distrutta. L’ ho già detto? Beh, lo sono.  Questa mattina mi sono svegliata nel nuovo continente e stasera andrò a letto nel vecchio. 
Si spera nello stesso letto di Enrico. 
Sfilo le scarpe di vernice nera e allargo le dita dei piedi. Nemmeno mi ricordo il momento in cui le ho infilate alle mie estremità. Le fashion week di mezzo mondo che si susseguono, condite da eventi e presentazioni di ogni genere, mi hanno letteralmente fatto perdere la cognizione del tempo. 
Che diavolo di ore saranno? Alzo la manica del vestito di Reem Acra e scopro l’ orologio d’ acciaio che mi ha regalato mio padre per la promozione. Le undici meno un quarto. Diamine, Enrico mi aspettava a casa per le nove.
Cerco il cellulare nella borsa, dalla quale escono carte, fogli, inviti e badge, senza risultato. Alzo la cornetta del telefono fisso del mio ufficio e compongo il numero di casa sua. 
‘Filippa, non posso credere che tu sia in ufficio. Quando diavolo sei arrivata in Italia?’ chiede arrabbiato. 
‘Qualche ora fa. Le mie valigie dovrebbero essere già nel tuo appartamento’ dico stanca. Non ho assolutamente voglia di litigare con lui soprattutto per telefono. Le ultime settimane sono state stressanti per tutti e due: non siamo abituati a dover dividere il nostro tempo con gli impegni di lavoro. Ci siamo corsi incontro ogni volta che ne sentivamo il bisogno, la presenza l’ uno nella vita dell’ altra è stata una costante. Adesso io non ho davvero il tempo di respirare, figuriamoci di poter passare un pomeriggio intero a letto con lui. 
Anita mi ha oberato di lavoro. E, attenzione, le sono grata di questo, davvero; ma non nego che inizio a capire perché Ferdinanda si è sentita obbligata a scegliere tra la sua gravidanza e questo lavoro. 
‘Filippa vengo a prenderti immediatamente. Domani è domenica e non voglio sentire scuse: devi riposarti. Ti toglierò il cellulare e il computer se dovesse essere necessario!’ mi riprende Enrico. 
‘Ti aspetto, fai in fretta’ ho così tanta voglia di vederlo che potrei pure passare una giornata intera senza sentir squillare il mio telefono. Anche perché, sinceramente, non ho idea di dove possa essere finito. 


‘Ehy straniera, che brutta cera che hai’ Enrico compare sulla porta del mio ufficio e mi sorride. 
‘Non sai quanto mi sei mancato’ gli dico. Sento una lacrima rigarmi il viso. Mi sento distrutta e allo stesso tempo sollevata: la mia ancora di salvezza è finalmente davanti a me. 
‘Mi sei mancata anche tu’ dice venendomi incontro. Mi tira per le braccia e mi cinge la vita. Mi appoggio al suo petto e, finalmente, dopo settimane, mi sento a casa. Al sicuro, stretta nel suo abbraccio, sento i muscoli che si rilassano. Chi diceva che casa è dove c’è il tuo cuore aveva dannatamente ragione. 
Prendo la borsa e il cappotto e mi concedo qualche ora di normalità. Sembra passato un secolo da quando, l’ ultima volta, ho attraversato Piazza Cadorna per passare una nottata tranquilla, nell’ intimità dell’ appartamento di Enrico lontana da stanze d’ albergo arredate con pezzi moderni e colazioni internazionali. 
‘Ah, prima che mi dimentichi, ha chiamato Arianna nel pomeriggio. Dice che ti ha cercato al cellulare ma non le hai mai risposto. Mi ha chiesto se per caso fossi stata rapita; ha detto che, se così fosse, sua madre verrebbe ad uccidere i tuoi rapitori pur di salvarti: Armani non ha il tempo di pensare il vestito per una nuova damigella’ 
Rido. Lady Arleene sarebbe davvero capace di una cosa del genere: nessuno può permettersi di intaccare la sua visione celestiale del matrimonio di Arianna. Tutto sarà esattamente fiabesco come lei l’ ha immaginato. 
‘Non trovo il cellulare. Non ricordo nemmeno l’ ultima volta che l’ ho visto’ mi giustifico. 
‘Poco male, senza Blackberry la tua domenica –anzi, la nostra- sarà decisamente più rilassante. Comunque, Arianna voleva farti sapere che il portiere ha preso tutti i pacchi che sono arrivati per te al vostro indirizzo ma che ha la portineria piena. Ha minacciato di buttare tutto se non vai a recuperare la tua roba’ 
‘Il portiere ha le chiavi del nostro appartamento, sa benissimo che può lasciarci tutto a casa’ bofonchio. 
‘Beh, domani mattina facciamo un salto a casa tua e vediamo di che si tratta’ mi dice comprensivo Enrico. 
Certe volte devo darmi un pizzicotto per ricordami che un uomo così è davvero mio. Lui è dolce e gentile. Enrico non perde la calma e questa è una grande qualità per una come me che la calma non sa nemmeno cosa sia. Il suo atteggiamento positivo nei confronti di ogni situazione è quasi irragionevole: quando tutti sono già usciti di testa, lui è ancora li, che cerca di capire qual è la strada giusta da prendere. 
Mi accoccolo sul suo petto e chiudo gli occhi. Sento in lontananza la voce di Enrico, starà raccontando ancora qualcosa dei giorni in cui siamo stati lontani ma la mia mente è già altrove. Non ho nemmeno la forza di ascoltare. Mi assopisco e la realtà intorno a me sfuma nel sogno. 


Sono distesa su un fianco. Il mio seno nudo è poggiato su morbide lenzuola di seta color crema. In lontananza si sente il rumore del mare; onde ritmiche e lente si infrangono su cumuli di roccia. L’ aria torrida è rinfrescata dal lento scorrere di particelle ghiacciate che escono dal condizionatore. Dalle lunghe vetrate, che corrono lungo la parete, di fronte il letto, i rivoli di luce dei raggi del mattino fanno capolino. In sottofondo solo il silenzio. Quel silenzio tipico di chi ha tutto; di chi è profondamente appagato e in pace con se stesso. Il suo tocco leggero mi accarezza quel lembo di pelle, al centro della schiena, che corre lungo la colonna vertebrale. Sembra quasi un percorso ad ostacoli: ad ogni vertebra le sue dita fanno un salto. 
La sua testa si poggia sull’ incavo del mio collo. Alzo, affaticata dal caldo e dal sesso, un braccio e gli cingo il collo senza aprire gli occhi; il suo corpo è familiare: non ce n’è bisogno. La barba di alcuni giorni mi pizzica sull’ avambraccio; sorrido. La sua bocca si sposta dai miei zigomi fino al collo e poi più giù, sulle scapole, sullo sterno. Arriva fino alla pancia. Sento risvegliarsi, se mai si fosse assopito, il desiderio di lui. Per lui è lo stesso: lo avverto dai suoi movimenti decisi e sai suoi respiri veloci. 
Il suo corpo pesante, un intreccio di muscoli e virilità, si poggia sul mio esile e bianco incarnato. Il suo volto è sul mio; le mie mani sulle sue guance. Entra piano dentro di me. Apro gli occhi lentamente, per godere dell’ immagine di quell’ uomo e… 
Porca Miseria. Davide. 
‘Ma che cavolo…’
‘Filippa, che è successo’ 
Mi metto a sedere sul letto e cerco di mettere a fuoco dove mi trovo. Ho addosso un pigiama a righe nere e grigie di Enrico. Sono a Milano; il cielo grigio oltre le finestre me lo conferma. 
‘Ho fatto un sogno. Un brutto, bruttissimo, sogno’ dico ad Enrico.
‘Ti sei agitata parecchio stanotte’ conferma. 
‘Dev’ essere il fuso orario’ biascico in maniera poco convincente. ‘Come mai sei già in piedi?’ chiedo per cambiare discorso. Il sogno era talmente reale che riesco a sentire le mani e il respiro di Davide sulla pelle. 
‘Ho ricevuto una telefonata importante per quel progetto di cui ti parlavo ieri sera, forse ci siamo’ 
Fermi tutti. Progetto? Quale progetto? Possibile che mi abbia detto qualcosa di importante mentre io mi abbandonavo alle braccia di suo fratello? Dannazione. 
Che fare? Fingere interesse cercando di carpire quanti più dettagli possibili o confessare di non sapere nemmeno di cosa stia parlando? 
Credo che la mia faccia stranita abbia deciso per me. 
‘Forse eri troppo stanca ieri sera e ti sei addormentata’
‘Si’ ammetto. 
‘Mi ha contattato una famosa galleria di Milano, la Flash Feri Box, un paio di settimane fa. Hanno visto alcuni miei scatti in una galleria a Soho e mi hanno chiesto se fossi interessato ad una personale a Milano. Sarebbe la prima mostra di fotografia soltanto mia. Posso scegliere il soggetto e le foto’ mi racconta emozionato. Dev’ essere una svolta per lui. E’ un bravissimo fotografo ma è inutile negare che molto del successo che ha avuto è legato al nome della madre. 
‘Sono strafelice per te’ gli dico avvicinandomi. Lo tiro per la manica e lo trascino sul letto. Riprendo da dove avevo smesso nel mio sogno ma, questa volta, con il fratello giusto. 


La mostra di Enrico è dopo domani. Sono passate due settimane da quando l’ ha saputo e, da quel momento, ha dato di matto. Alla faccia di quello sempre tranquillo e razionale. Nel suo appartamento vige il caos: provini e fotografie sono sparsi in ogni angolo; la sua macchina fotografica chiede pietà e –come se non bastasse- le mie cose giacciono disseminate nei posti più impensabili. Per farvi un esempio, questa mattina, quando sono scesa in cucina a fare colazione (Due tazzine di caffè. Meglio tre, che la giornata è lunga) ho trovato due paia di scarpe Valentino ancora non in commercio sul piano cottura. 
Come ci siano arrivate non lo so. 
Azzarderei con i piedi, dato che sono scarpe. Battuta pessima, dimenticatela per favore. 
Sento un cinguettio provenire dalla mia nuova borsa di Chanel (pagata sempre con il mio stipendio che ancora non ho ricevuto: mancano sei giorni e sarò ricca. O, perlomeno, salderò i debiti della carta di credito); è il nuovo cellulare. Di quello vecchio nessuna traccia. E’ Enrico. 
‘Filippa, questo pomeriggio appenderanno le foto, dopo di che non sarà più possibile modificare nulla della mostra. Mi farebbe piacere che tu le vedessi prima; ho davvero bisogno di un tuo parere’ 
Mi guardo intorno. Ho la scrivania piena di fogli; il book con il numero di marzo aperto sul tavolo, al quale mancano le pagine centrali, le più importanti di tutto il numero. Lara e Thomas sono a Barcellona per un servizio fotografico e ho un pranzo di lavoro con un fotografo russo che Anita vuole assolutamente al suo servizio. La galleria si trova a quasi cinquanta chilometri da qui, non ce la farò mai. Mai. 
‘Tesoro conosco le tue foto a memoria. E’ solo l’ ansia che ti fa parlare. Sai che andrà tutto bene’. Cerco di tranquillizzarlo al telefono: nemmeno se avessi a disposizione un elicottero riuscirei ad andare alla galleria e tornare in tempo per finire il lavoro. 
‘Ti aspetto. Ho davvero bisogno di te’. Riattacca. Le sue parole mi fanno sentire terribilmente in colpa. 
Guardo il caos sulla mia scrivania e ammetto amaramente a me stessa che è impossibile che io arrivi in tempo a vedere quelle foto. 
Mi appoggio stancamente allo schienale della sedia e inspiro. Per la prima volta, da quando lavoro a Vogue, odio quello che faccio. Fisso il caos intorno a me e non lo trovo poetico, creativo o stimolante. 
Il mio uomo ha bisogno di me, in un momento importante della sua carriera, ed io non riesco a scollare il sedere da questa sedia. Tutti i sacrifici fatti per arrivare a Vogue mi tengono incollata come i tentacoli di una medusa. Quasi che il veleno dell’ oblio mi scorresse nel sangue, mummificandomi. 
Per quanto voglia correre da Enrico, non faccio un passo. Nessuno dei miei infiniti muscoli si muove in quella direzione. 
Squilla il telefono alla mia scrivania, è l’ assistente di Anita che mi prega di raggiungerla subito. 
Mi alzo, esco dal mio ufficio e attraverso l’ open space fremente verso la stanza di Anita. 
Busso ed entro senza aspettare risposta; Anita mi ha detto di fare così quando è lei stessa a chiamarmi. 
‘Filippa hai il passaporto con te?’ chiede Anita. 
‘Credo di averlo ancora in borsa, perché?’ ho quasi paura a chiederlo. Se devo rimettere piede su un aereo mi butto giù dalla finestra. 
‘Andiamo a Londra. Partiamo immediatamente. Non preoccuparti di nulla, troveremo tutto quello che ci serve in albergo; la mia assistente sta pensando a tutto’ ordina. 
‘A Londra? Ora? E il pranzo con il russo?’ 
‘I direttori dei Vogue di America, Spagna, Inghilterra e Francia arriveranno in serata a Londra per una riunione d’ emergenza dei vertici Condé Nast. Devo esserci e devi esserci anche tu. Puoi imparare molto di questo lavoro da riunioni del genere’ 
‘Anita quando torneremo in Italia?’ chiedo. Mi sento mancare. 
‘Non so; fra tre giorni al massimo’ 
‘Dopo domani c’è l’ apertura della mostra di Enrico’ azzardo. 
‘Oh, per carità, lo so. Il mio ex marito mi ha chiamato per farmi sapere che lui e la sua allegra famigliola saranno a Milano per questa mostra. Fortuna che, se tutto va come previsto, noi saremo lontane chilometri’ mi conferma sorridendo. 
Io spero con tutto il cuore che lei stia scherzando ma dal ghigno luccicante nei suoi occhi, capisco che è più che seria. Io non posso mancare all’ apertura della prima personale di Enrico. E nemmeno lei, porca miseria. Non può andarsene a zonzo per l’ Europa quando suo figlio –l’ unico dei due che ancora ha una blanda forma di rispetto del suo ruolo di madre- presenta qualcosa di così importante per la sua carriera. 
‘Anita io dopo domani sera devo essere a Milano, alla mostra di Enrico. Cascasse il mondo, io sarò li’ 
‘Si vedrà. Vai a prepararti, partiamo tra un’ ora’. 


‘Lo so. Farò di tutto per tornare in tempo. Anche a costo di licenziarmi stasera sarò accanto a te. Adesso devo riattaccare. Ti amo, ricordatelo’ gli dico. E’ la centesima telefonata di Enrico da stamattina per sapere a che ora partirò da Londra. 
‘Anche io mi amerei’ scherza. Il tono della sua voce, però, era tutt’ altro che allegro. 
Fisso l’ orologio ancora una volta. Le 15.40. Quando vorresti legare il tempo con le catene, lui fugge inesorabile. 
Le pareti di questa sala riunioni mi stanno soffocando. Il cielo grigio, che filtra dalle finestre come una coltre di cattivi pensieri e brutti presentimenti, mi leva l’ aria. 
Anita ed io stiamo assistendo a riunioni e presentazioni e, quando credo che finalmente i nostri impegni qui siano finiti, spunta fuori qualcos’ altro che dobbiamo vedere, qualcun’ altro che dobbiamo sentire.
Controllo spasmodicamente i voli per Milano da Londra ogni due minuti sul cellulare. Ho comprato il biglietto su tutti i voli disponibili. L’ ultimo utile, per arrivare in tempo alla mostra, è fra due ore e quindici minuti. Mi appoggio al muro dietro di me ed inspiro: devo trovare un modo per andare via. 
‘Filippa tra qualche minuto incontreremo Sarah Burton’ mi ammonisce Anita. 
‘Meraviglioso’ balbetto. 
‘Lo è davvero. Gerome ci sta raggiungendo; la signora Burton si è montata la testa dopo aver disegnato il vestito alla futura regina e non concedeva un’ intervista da allora. Nemmeno fosse lei la futura regina’ commenta con relativo sdegno il mio capo. 
‘Anita io devo prendere l’ aereo delle cinque per Milano o non farò in tempo per la mostra di Enrico’ azzardo. 
‘Non essere sciocca. Vogue Italia si accaparrerà un’ intervista ambita dai giornali di moda di tutto il mondo occidentale e lo sai cosa significa questo? Significa che la tua presenza è fondamentale; sei tu che devi oleare gli ingranaggi, devi promettere alla Burton fotografie su fotografie dei suoi abiti, devi farle sentire odore di menzioni e di copertine. Sei tu che ti occupi del settore moda; sei tu che scegli e sei tu che devi pizzicare il suo palato per Vogue. Tira l’ esca e aspetta che il pesce abbocchi, Filippa. Mio figlio, se è bravo, farà altre mostre. A meno che tu non ti senti pronta per questo. Non vorrei dovermi trovare nella posizione di dover rivedere i tuoi incarichi’ 
‘No, certo che no. Andiamo a pescare Sarah Burton’ confermo sconsolata. E speriamo che abbocchi in fretta. Il più in fretta possibile. 


Fisso imbambolata il tabellone delle partenze dell’ aeroporto di Gatwick, Londra. Accanto a me una moltitudine di persone che vanno di fretta verso il posto che li aspetta con ansia. 
I numeri scorrono frenetici e le destinazioni si susseguono veloci come se si potesse passare da una all’ altra con il teletrasporto. Milano spunta in rosso, sul tabellone nero, minacciosa. Ho perso l’ aereo delle diciassette e con lui tremilacinquecentotrentadue sterline spese per comprare biglietti per Milano su tutti i voli della giornata. La mia ultima speranza è quello delle diciotto e dieci che ho dovuto pagare in contanti. In compenso, Sarah Burton ci ha concesso sei pagine di intervista in cui ci racconterà i dettagli succulenti della sua collaborazione con la duchessa di Cambridge. 
Chiamo mia sorella Claudia e le confermo l’ ora del mio arrivo. Mi viene a prendere in macchina e mi porta in centro dove si tiene la mostra. Magari ha comprato una Ferrari nell’ ultima settimana e io non ne so niente anche se lo escludo. 
Spengo il cellulare e mi avvio al gate sperando di trovarmi magicamente alla galleria d’ arte in meno di due ore. 
Atterro all’ aeroporto di Malpensa alle 21.55. La mostra è, anzi era, alle 20. Accendo il cellulare nell’ istante stesso in cui l’ aereo tocca terra e chiamo Claudia.
‘Filippa sono agli arrivi. Ho il motore della macchina già acceso’ mi dice prima che possa aprire bocca. 
Mi sento sopraffatta dalla stanchezza e dall’ ansia: Enrico sarà nero come la notte dalla rabbia. 
‘Grazie’ biascico mentre sento le lacrime spingersi fuori. 
Il mio cellulare inizia a cinguettare e una serie di letterine lampeggiano sullo schermo. Diciannove sms da leggere. Arianna, Enrico, mia madre, il fratellino minore di Enrico; tutti mi chiedono dove diavolo sia finita. 


Le vetrate della galleria riversano sulla strada deserta rivoli di luce fioca e giallastra. Alzo la manica del cappotto e fisso l’ orologio inorridita: sono le 23. La mostra è finita ed io me la sono persa. 
Dalle vetrate intravedo Enrico. E’ scuro in volto; sorride forzatamente all’ uomo che ha di fronte, scambia ancora qualche parola poi gli stringe la mano e il suo interlocutore se ne va. 
Indossa una camicia celeste stretta dentro un paio di pantaloni blu scuro che gli scivolano lungo le gambe come fossero disegnati addosso a lui. 
Lo guardo per un po’, cercando il coraggio di entrare ed affrontarlo. 
File di fotografie che ho visto e rivisto dormono appese alle pareti. Il loro momento di gloria è passato e, se tutto andrà come nei piani, presto avranno una casa. 
Inspiro. Sono immobile, davanti la porta. Espiro. 
Raccolgo quel briciolo di coraggio, attraverso la porta di vetro e affronto la tempesta. La porta di ingresso della galleria sbatte, Enrico, l’ uomo con cui parlava prima e una donna che sparecchia i tavoli del buffet si girano nella mia direzione. 
‘Signorina, mi spiace, siamo chiusi. La mostra è finita. Se le interessano le opere del fotografo può ripassare domani’ mi dice gentile l’ uomo vestito di nero. 
‘Luca, è con me. Luca Traviani, Filippa Torre. E’ lei il soggetto della maggior parte delle foto’ spiega Enrico al curatore, presentandoci. 
Luca si allontana ed io raggiungo Enrico. Sta fissando una foto che mi ritrae di profilo. Si intravede la punta del naso e una mano che giocherella con una ciocca di capelli. Il bianco e nero scelto per la foto bilancia la passione rossa di quel momento; ricordo bene quando mi scattò questa foto: la prima volta che facemmo l’ amore dopo il mio incidente, a New York. Le zone d’ ombra intorno al naso creano un effetto ottico straordinario: sembra che sia riuscito a catturare un respiro. 
‘Mi dispiace. Ho fatto prima che ho potuto, tua madre non mi ha…’ comincio. Mi blocca immediatamente. 
‘Non mi interessano le tue ragioni. Sono solo scuse’ dice brusco. 
Il suo sguardo è fisso su quella fotografia, su quel momento felice e spensierato. Un momento in cui ci siamo raccontati i sogni e le paure. Ci siamo desiderati e voluti, abbiamo consumato una passione che bruciava come una candela al vento. 
‘Mi sono persa questo momento e Dio solo sa come mi faccia stare male questo. Mi dispiace. Mi dispiace, non so che altro dire’. Cerco di prendergli la mano ma lui la ritira, brusco. 
‘Tutta questa fottuta mostra era dedicata a te. Come credi che mi sia sentito mentre tutti mi chiedevano dove diavolo fossi? Mio padre, tua madre… Mi sono sentito un idiota. Uno stupido. Ho creduto in te, in noi; ci sono stato e ci ho messo tutto me stesso. Queste foto sono il racconto di due persone che, si suppone, sono al mondo per stare insieme. Dov’ eri tu? Dove diavolo eri, Filippa?’
Ha gli occhi accesi di rabbia. Il rancore gli scorre lungo le labbra mentre mi parla; mentre mi accusa di averlo abbandonato. 
Mi sento divorare dai sensi di colpa mentre lacrime bollenti mi scivolano lungo le guance. Che cosa devo dirgli? Posso giustificarmi in qualche modo? Ho delle scusanti? Si… No… Non lo so. 
‘Molto probabilmente ci siamo buttati in qualcosa di troppo grosso; di troppo serio; prima che tu fossi pronta. Credevo che fossimo sintonizzati sulla stessa stazione, evidentemente mi sbagliavo. Buona notte, Filippa’ continua Enrico. 
Apro la bocca ma non esce nulla. Vorrei gridargli che mi dispiace; che se potessi pagherei il diavolo con l’ anima pur di portare indietro il tempo. Mi odio come mai mi era successo. Mi odio per il male che gli ho fatto e per la delusione che, viva dentro i suoi occhi, mi ha riversato addosso. 
Guardo Enrico allontanarsi. Sbatte la porta della galleria; entra nella sua jeep posteggiata proprio davanti l’ ingresso e sparisce nella Milano silenziosa di una notte d’ inverno. Lo stesso inverno che mi sta gelando il cuore in questo momento. 


Prendo il cellulare e scorro la rubrica. 
Premo il tasto verde e la chiamata si attiva. 
‘Filippa’ risponde la sua voce calda e familiare. 
‘Ho fatto un casino’ mi giustifico anche con lui. 
‘Lo so. Io c’ ero’ 
‘Sono alla galleria e lui è andato via’ spiego. La mia è una richiesta d’ aiuto. Un SOS disperato a qualcuno che mi può spiegare come si sente e come si vive con questo maledetto senso di colpa che mi leva il respiro. 
‘Ti vengo a prendere’ dice sereno. 
‘Grazie, Davide’. 
Mi lascio cadere sulla sedia e fisso quella maledetta fotografia. Su un piccolo cartoncino bianco in rilievo c’è la frase di una canzone. Il pomeriggio in cui scattò la foto avevamo lasciato la tv accesa, sintonizzata su Mtv, che trasmetteva le migliori canzoni country degli ultimi tempi. I Lady Antebellum si alternavano sullo schermo sulle note di ‘Just a Kiss’.
Be the One i’ ve been waiting for my whole life’ è scritto in neretto come fosse una richiesta. Ed io ho appena fallito. 




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7 commenti:

  1. Tu mi vuoi uccidere vero? Ancora sto Davide? Aaaaaah Robi!!!!!!!!

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    1. Donna di poca fede, vedrai che Davide sarà di grande aiuto. E' uno saggio...
      Robi

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    2. Uno che a tentato di sedurla a colpi di pancake? Mh. Si sono di poca fede.

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  2. Quel trunzo di Enrico non si secca quando lei si ritrova in un altro stato col fratello che odia, dopo che gli ha raccontato tutte le cose che gli ha nascosto e si secca perchè non è arrivata alla mostra?!

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    1. Si è comportata esattamente come sua madre e questo l' ha innervosito. Adesso sta a lei decidere se essere la donna di Enrico o la copia di Anita :D
      Robi

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  3. cavoli che invidia.
    cordialità.

    :)
    ps. se passi da me c'è un giveaway davvero bellissimo.
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    Ti aspetto. ***

    http://palermostreetstyle.blogspot.it/

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  4. ç____ç
    dimmi che il prossimo non è l'ultimo!!! evviva davide!!!!!! :D

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